Genesis

Genere Progressive rock, classic rock, rock, 80s, Progressive

I Genesis sono un gruppo musicale britannico associabile al filone del rock progressivo. Il nucleo del gruppo si forma a Godalming, cittadina nei pressi di Londra, presso la Charterhouse School, prestigioso college frequentato da rampolli della buona borghesia britannica. La formazione originale comprendeva Tony Banks (tastierista), Peter Gabriel (cantante, flautista e percussionista), Anthony Phillips (chitarrista), Mike Rutherford (chitarrista e bassista) e Chris Stewart (batterista). Il loro esordio discografico risale al 1969 con l'album ''From Genesis to Revelation''. Dal punto di vista creativo i Genesis degli anni settanta hanno pochi rivali nel panorama della musica rock progressiva. La formazione "tipo" dei Genesis è sicuramente quella che inizia nel 1971 già con Nursery Cryme che continuerà attraverso altri album, quali Foxtrot, Selling England by the Pound, The Lamb Lies down on Broadway. Dal 1971 al 75 (anno in cui Gabriel finisce il suo ultimo tour prima di abbandonare i Genesis) la band Londinese sfoggia Tony Banks (tastierista), Peter Gabriel (cantante, flautista e percussionista), Mike Rutherford (chitarrista e bassista), Phil Collins (batterista), Steve Hackett (chitarrista).
"A Trick of the Tail", è il colpo di coda del gruppo inglese dopo l’abbandono di Peter Gabriel. L’ultima tappa, insieme forse al successivo album "Wind & Wuthering" del ’77, dei Genesis progressivi. Si tratta, potremmo dire, di una evoluzione nella tradizione. Il disco risente ancora, fortunatamente, della benefica onda lunga delle grandi opere della prima metà del decennio: Collins è su una posizione paritaria rispetto ai compagni; anzi, dal punto di vista strettamente compositivo, è addirittura in minorità; rispetto a Tony Banks, ad esempio. E’ il tastierista il principale responsabile di questo disco. Il batterista non ha ancora assunto la leadership assoluta del gruppo: quando lo farà, la musica dei Genesis evolverà sempre più (ma noi preferiamo dire involverà, o scivolerà) verso un pop facile, destinato ad un pubblico assai diverso da quello che ascoltava e ascolta "Foxtrot" etc. Sarà un altro gruppo, diverso: una spaccatura profonda. L’ulteriore defezione da parte del chitarrista Steve Hackett, subito dopo l’uscita del live "Seconds Out" del ‘77, sancirà definitivamente il cambiamento di rotta del terzetto superstite. Ma qui siamo ancora ad alti livelli, bisogna ammetterlo. Certo si nota già in alcuni punti la tendenza ad ammorbidire i toni, a volte proprio ad edulcorarli; ma si tratta di musica raffinata, compositivamente complessa, per nulla banale. Come abbiamo detto, parliamo ancora, qui in "A Trick of the Tail", di evoluzione positiva, necessaria, verrebbe da dire. Anche Phil Collins se la cava molto bene, riesce quasi a non far rimpiangere la grande voce di Gabriel: riesce anche ad imprimere, quando serve, la giusta grinta e potenza, oltre alla usuale delicatezza che già gli si conosceva.

"Dance on a Volcano", che apre l’album, è forse in assoluto uno dei migliori brani dei Genesis: un inizio splendido, imperioso, che incute rispetto; un’aura mitologica in pieno stile Genesis; cambi di ritmo; Phil in grande forma. Lo strumentale è quasi sempre dominato dalle tastiere di Banks; e, a questo proposito, visto che in un sito musicale russo ci è capitato di leggere una critica agli arrangiamenti del mite Tony, vorremmo rispondere: fossero tutti così gli arrangiamenti! Inoltre canzoni come "Entangled" e "Ripples" sono in buona parte sostenute dalla chitarra acustica e, la seconda, da un altrettanto acustico pianoforte: è un brano delicato, un esempio della nuova tendenza musicale del quartetto inglese, su misura per la vocalità di Collins; ma ancora una volta è presente in esso una modulazione ritmica, una parentesi, che ne spezza positivamente l’andamento: è la firma dei Genesis. Qui si firmano ancora. Ma il meglio del disco, oltre alla sunnominata "Dance on a Volcano", va ricercato probabilmente in brani come "Squonk", dal ritmo festoso e mosso, con bella parte vocale; in "Mad Man Moon", grandiosamente sognante; in "Robbery, Assault and Battery", che rientra a pieno titolo nel catalogo burlesco e scherzoso della Genesi: una parte vocale saltellante e inusuale, un bell’intermezzo strumentale, un bel finale. La canzone che dà il titolo all’album è poco appariscente e potrebbe sembrare di scarso valore, ma grazie ad un ascolto attento non apparirà più tale. Chiude l’opera "Los Endos", brano interamente strumentale che riprende i temi di "Dance…" e di "Squonk". Visto che si tratta di una incisione in studio, Collins, sebbene promosso a cantante di ruolo, si occupa ugualmente di batteria e percussioni: e si sente. La sezione ritmica è come sempre di alto livello. Nelle esecuzioni dal vivo però, questa operazione non sarà ovviamente più possibile. Bella la copertina, "very british".
Arriviamo così a "Wind & Wuthering" un disco difficile da giudicare. Sotto molti punti di vista può essere definito 'epocale': non per le qualità intrinseche, ma per il suo ruolo, diciamo così, storico. Esso chiude sostanzialmente la gloriosa esperienza progressiva del gruppo, manifestando già tracce di quella che sarà l'ispirazione musicale futura.

Difficilmente i mutamenti artistici, così come quelli di altro genere, avvengono di colpo, da un giorno all'altro; esiste quasi sempre una zona, più o meno vasta, di passaggio, dove i caratteri della fase più antica si mescolano a quelli nuovi. Nel caso specifico questa zona è costituita in buona parte proprio dall'opera di cui stiamo parlando.

Certamente i patiti del progressive, non potranno fare a meno di considerare "Wind and Wuthering" quasi come l'ultimo album dei Genesis: la produzione seguente sarà sempre più, anno dopo anno, quella di un gruppo diverso, che di quello vecchio manterrà, incidentalmente, solo il nome. Sostanzialmente differente sarà anche il pubblico di riferimento. D'altra parte il '77 è anche l'anno dell'abbandono di Steve Hackett: questo è il suo ultimo album di studio con i Genesis.

Fatta questa premessa - ed evitando di farci prendere dalla tristezza - dobbiamo dire che non si tratta di un brutto disco. Senza dubbio è inferiore al precedente: sia per quanto riguarda la composizione strumentale, sia per quel che concerne il cantato. Appare complessivamente opera più stanca, meno fresca, senza l'inventiva di "A Trick of the Tail". Il canto di Collins è meno incisivo, più piatto. Eppure l'ascolto rimane piacevole. Il suono è dominato dalle tastiere, specialmente dai sintetizzatori: un suono talvolta un po' freddo e distante, metallico. "Eleventh Earl of Mar" è uno dei pezzi migliori, anche vocalmente: l'introduzione strumentale lenta e meditativa lascia il posto ad una parte mossa, dalla interessante sezione ritmica (attenzione al basso) , spezzata da un intermezzo più delicato. Ben riuscito anche il collegamento fra l'intermezzo e la ripresa. Il finale ripete, in modo efficace, l'introduzione.

"One for the Vine", il brano più lungo, racchiude in sé tutte le caratteristiche, i pregi e i difetti, dell'album. O, per meglio dire, ne esprime le due anime: quella progressiva, ancora primaria ma destinata all'esaurimento, e quella più decisamente pop, in piena espansione. L'oscillazione della musica fra l'una e l'altra non produce peraltro un effetto sgradevole. E l'apertura strumentale centrale, con quel repentino e così tipico mutare dell'andamento del pezzo, provoca un tuffo al cuore: non sarà un capolavoro assoluto, ma in questo contesto avaro di momenti realmente memorabili attira l'attenzione. Bello anche tutto il finale, dove l'ultima parola è lasciata al pianoforte solo, che suona quasi come un'epigrafe. Fin qui i pro. I contro vanno localizzati in certi passaggi vocali non proprio convincenti, zuccherosi e salottieri: come salottiero è del resto un po' tutto il disco.

Prendendo dunque "One for the Vine" come pietra di paragone, possiamo attribuire al versante pop dell'album "Your Own Special Way" e "Afterglow", brani che piaceranno soprattutto ai fans del Phil Collins più mieloso. Il primo in particolare costituisce uno dei punti più bassi dell'album: un banale e stucchevole ritornello, con terrificante coretto di vocine. Dopo un'epigrafe edificante, ecco un lugubre atto di nascita, che porta la firma di Mike Rutherford. Non c'è molto di che gioire nemmeno per l'incolore "Afterglow" e il suo insistito e fastidioso accompagnamento corale. Nettamente superiori sono invece "All in a Mouse's Night" e "Blood on the Rooftops". Quest'ultima è addirittura una sorpresa: il lungo assolo iniziale di chitarra acustica, da menestrello medioevale, giunge assolutamente inatteso in una trama prevalentemente elettrica e 'sintetica'.

Il buon Steve dimostra di non aver perso la mano e il tocco di fino, mentre la mente corre immediatamente ad "Horizons": sembra passato un secolo, ma sono solo cinque anni. Delle tre tracce interamente strumentali la migliore è "…in that quiet Earth" (che in realtà, come mostra anche il titolo, è la continuazione della precedente "Unquiet Slumbers for the Sleepers…"): da segnalare certe taglienti e vigorose chitarre alla King Crimson, inusuali per i Genesis.


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